Materiali a supporto
dello studio della paleografia
latina
Marilena
Maniaci
Il bibliotecario
conservatore: quale offerta
formativa
Convegno Professione
bibliotecario. Come cambiano
le strategie di formazione
(Milano, Palazzo delle Stelline,
11-12 marzo 2004)
Circa vent’anni fa, intervenendo
sullo stesso tema su cui mi è
stato chiesto di proporre oggi
le mie riflessioni, Alessandro
Pratesi osservava che "per
quanto riguarda i bibliotecari
conservatori e la loro
professionalità non c’è stato, o
non c’è stato in modo vistoso,
un mutamento radicale delle loro
funzioni, così come si è
verificato invece per i
bibliotecari tout court,
i quali, in conseguenza di
realtà sociali, strutture
organizzative e procedimenti
tecnici assolutamente nuovi in
cui o di fronte a cui essi si
trovano ad operare, hanno dovuto
necessariamente ricorrere ad una
revisione concettuale della loro
figura" [ 1].
Nell’affrontare
un argomento lontano, anche se
non estraneo, ai miei interessi
consueti — conosco il mondo
delle biblioteche da utente
abituale, e non da
professionista — mi sono chiesta
se il giudizio di Pratesi
conservasse ancora oggi la sua
validità [ 2]
e, più in generale, se esistesse
davvero una visione chiara ed
ampiamente condivisa delle
funzioni specifiche, e
soprattutto delle priorità
attuali, del bibliotecario
conservatore, ovvero — come
preferirei definirlo superando
la tradizionale ma inopportuna
cesura fra manoscritti e primi
libri a stampa [ 3]
— del "bibliotecario di fondi
antichi".
Confesso di aver constatato
con una certa sorpresa che le
cose non stanno esattamente
così. Certo, nel movimento di
radicale trasformazione che ha
investito in anni recenti la
"professione bibliotecario",
lo specialista di fondi
antichi non può certo ambire
ad un ruolo da protagonista, e
l’interesse per la definizione
di uno specifico profilo
professionale rimane quindi,
comprensibilmente, confinato
ad una ristretta cerchia di
interessati, oltre che — come
sempre — estraneo a qualunque
forma di esplicito
riconoscimento a livello di
canali di reclutamento. Anche
fra il pubblico limitato degli
"esperti", mi è parso tuttavia
di registrare una percezione
alquanto diversificata della
specificità del bibliotecario
del libro antico, in funzione
dell’importanza attribuita
all’una o all’altra delle
componenti che ne definiscono
l’attività.
Ritengo
allora che il mio contributo a
questo convegno consista
proprio nel focalizzare — dal
punto di vista dello studioso
— i compiti, alquanto
variegati, che è chiamato a
svolgere un "bibliotecario
moderno di fondi antichi", e
dunque i requisiti formativi
essenziali per lo svolgimento
di questo mestiere. Credo
infatti che la definizione dei
nuovi percorsi formativi
universitari abbia sofferto, e
non soltanto nel caso
specifico, della carenza di
una riflessione preliminare
sufficientemente approfondita
e adeguatamente pragmatica, e
soprattutto della mancanza di
un produttivo scambio di
opinioni fra responsabili
della formazione e
professionisti già operanti
"sul campo", inevitabilmente
portatori di una diversa
percezione dei problemi e
delle contraddizioni che
pesano sullo svolgimento
dell’attività quotidiana.
Questa mi sembra la sede
adatta per portare la
riflessione, anche se a
posteriori, su questo
essenziale terreno di
confronto.
È ben
noto che tra la fine
dell’antichità e l’inizio
dell’età moderna è stata
allestita in Italia una
quantità eccezionale di beni
artistici e librari,
certamente superiore a quella
che ha visto la luce nei
singoli Paesi del resto
d’Europa. Per limitarci ai
beni librari, sappiamo che
l’Italia ha prodotto il 38%
circa delle edizioni a stampa
anteriori al XVI secolo,
seguita a ruota soltanto dalla
Germania (32%) [4].
Quanto
ai manoscritti mancano — e non
a caso — calcoli precisi, ma
la superiorità italiana è
certamente ancora maggiore,
data l’esiguità della
produzione germanica nel corso
del XIII e XIV secolo – cioè
prima della fondazione delle
principali università tedesche
e d’Europa centrale — e la
stagnazione di quella francese
dal 1350 al 1450, dovuta agli
effetti della Peste nera e
alla situazione politica di
quel Paese [5].
Si tratta
di un primato culturale
certamente invidiabile, ma che
è anche fonte di notevoli e
specifiche contraddizioni,
dato che proprio l’abbondanza
del patrimonio conservato ne
rende assai più complessa e
delicata la gestione. I secoli
passati erano alieni dal culto
feticistico del cimelio
archeologico, il cui obiettivo
utopistico è "conservare tutto
il conservabile". Era già
abbastanza difficile
preservare ciò che si riteneva
funzionale all’uso corrente
(tra cui, appunto, i
manoscritti che, dato il loro
costo di allestimento, erano
teoricamente destinati a
servire per secoli), anche se
magari si utilizzavano le
pietre dei templi antichi per
costruire cattedrali. Salvo
rare eccezioni, si accettava
come naturale il fatto che
qualsiasi manufatto, una volta
fabbricato, entrasse
inevitabilmente in un ciclo di
consumazione, di degrado ed
eventualmente di ulteriore
riuso [6].
Non
ci si preoccupava, in altri
termini, che il volgere del
tempo, rendendo sempre più
difficile la conservazione
delle testimonianze del
passato, tendesse ad impedirne
la ricostruzione storica. La
situazione è del tutto diversa
per noi moderni, allevati
nella venerazione del passato
e protesi nella volontà
ostinata di svelarne la
storia.
I cimeli
archeologici di ogni genere —
e i libri in particolare —
sono soggetti ad una serie di
sollecitazioni che tendono ad
alterarne lo stato originario,
agendo su tre fronti:
- tutto ciò che è
incustodito tende ad essere
disperso, in modo lecito o
più spesso fraudolento;
- tutto ciò che non è
accuratamente preservato è
destinato ad essere più
rapidamente attaccato e
degradato dall’ambiente [7];
- tutto ciò che è custodito
e preservato rischia
comunque di essere distrutto
da avvenimenti "violenti" e
imprevedibili, di natura
casuale (inondazioni,
incendi) o deliberata (fatti
bellici o atti vandalici,
individuali o collettivi).
Il
cumulo eventuale di più di uno
di questi "principi di
entropia" — evidentemente
collegati fra loro —
costituisce ovviamente un
fattore aggravante. Un
ulteriore, e importantissimo,
fattore aggravante è dato
inoltre dall’assenza di
censimento. Un libro
sconosciuto è un libro
virtualmente scomparso; e il
passaggio dal "virtuale" al
"reale" è più rapido di quanto
non si creda. Il libro che non
viene censito — e quindi né
custodito, né preservato — è
quello che corre
potenzialmente il maggior
numero di rischi.
Tutto
ciò
che è incustodito tende ad
essere disperso. Anche
se la maggior parte dei beni
culturali prodotti in Italia
vi si trova ancor oggi, una
quantità rilevante è emigrata
all’estero nel corso dei
secoli. I musei, le grandi
biblioteche e le collezioni
private europee e americane
abbondano di cimeli — molti
dei quali celeberrimi —
sottratti al nostro patrimonio
nazionale con la forza, con la
frode o anche in seguito a
transazioni commerciali più o
meno lecite con i proprietari
legittimi.
Lo
stillicidio continua tuttora,
e con le medesime modalità,
perché la contraddizione di
base che ne è all’origine è
rimasta di fatto immutata:
l’Italia è stata abbastanza
ricca da produrre e accumulare
un immenso patrimonio
culturale, ma è diventata, ed
è, troppo povera per gestirlo
nella sua interezza, e persino
per arrivare a delinearne i
contorni con precisione
accettabile. Di conseguenza,
tutto ciò che non è
sufficientemente custodito è
destinato a sparire
illegalmente e tutto ciò che è
proprietà di privati e di
istituzioni troppo povere
rischia di essere ceduto per
far fronte a situazioni
impreviste di difficoltà. La
forza pubblica non ha i mezzi
per presidiare tutte le
sacrestie e le ville private
al fine di impedire i
saccheggi, e le pubbliche
istituzioni non hanno i mezzi
finanziari per trattenere,
esercitando il diritto di
prelazione, il patrimonio che
si disperde senza sosta
attraverso un’enorme quantità
di piccole falle.
Tutto
ciò
che non è preservato si
degrada rapidamente per
effetto dell’ambiente.
Per "ambiente" si intendono,
ovviamente, non soltanto gli
agenti atmosferici (umidità,
radiazioni non solo luminose,
inquinamento) ma anche
l’"armata silenziosa",
composta da roditori, insetti,
microorganismi, che agisce
tanto più indisturbata quanto
più il patrimonio è "morto",
cioè sottratto alla vigilanza
di occhi umani capaci di
constatare i danni incipienti
o avanzati.
Fra i
fattori di degrado va inoltre,
purtroppo, annoverato anche
quello di origine umana,
rappresentato dalla cattiva
conservazione e dalle forme
invasive di restauro,
unicamente protese a
preservare quella che — quasi
sempre a torto — si ritiene
essere l’informazione
essenziale fornita da un
libro: la leggibilità del
testo. Una legatura antica in
cattivo stato viene (succede
ancora oggi!) gettata via e
sostituita da una moderna più
solida (talvolta realizzata,
paradossalmente, in uno stile
imitativo); la pergamena
arricciata viene energicamente
spianata; la carta scurita dal
tempo viene sbiancata con
candeggina... Il restauro
invasivo trasforma un
testimone veridico in un
sosia, certamente più "bello"
e presentabile, ma spogliato
definitivamente di qualsiasi
valenza archeologica. La
consapevolezza degli effetti
nefasti delle operazioni di
"restauro" è peraltro recente,
e non certo universalmente
diffusa.
Tutto
ciò
che è custodito e preservato
potrà comunque essere
distrutto. È quanto è
spesso accaduto nel corso dei
secoli, ed è il fattore che
più colpisce l’immaginazione e
induce a credere che la
"barbarie" sia la principale
responsabile
dell’assottigliamento del
patrimonio librario: in Gran
Bretagna la Riforma anglicana,
in Francia le guerre di
religione e la Rivoluzione
francese, in Italia l’incendio
della Biblioteca nazionale di
Torino nel 1904 e
l’inondazione fiorentina del
1966, in Belgio la duplice
distruzione dei manoscritti
della biblioteca
dell’Università di Lovanio,
una prima volta durante la
Grande guerra e una seconda
nel 1940. Di fronte a questi
eventi notissimi e
spettacolari si dimentica che
la vera fautrice dello scempio
non è la "barbarie", ma la
"civiltà", e cioè l’avvento
del libro a stampa: la quasi
totalità del patrimonio
manoscritto privato, e una
buona parte di quello
istituzionale — non a caso, la
parte qualitativamente meno
ricca — è andato perduto, per
semplice incuria, già prima
della metà del secolo XVI [8].
Fra i
fattori di distruzione non va
dimenticato infine il
vandalismo individuale, mosso
non solo dall’avidità di
guadagno ma anche,
paradossalmente, da una
malintesa avidità di sapere e
dal gusto del cimelio bello o
venerabile. Vandalismo che era
già all’opera fin dal
medioevo, vera e propria
ossessione del bibliotecario,
e di cui sono testimoni i
fascicoli mancanti, le pagine
con le miniature asportate e
le iniziali ritagliate. Che
cosa sono i cosiddetti membra
disiecta, se non la
traccia visibile di questo
intenso lavorio sotterraneo?
Di
fronte all’impatto cumulato
delle circostanze avverse,
potrebbe venire spontaneo
paragonare il bibliotecario ad
una sentinella, incaricata di
mantenere per quanto possibile
intatto un fazzoletto di
terreno più o meno vasto, ma
comunque ben delimitato. A
condizione che i volumi siano
dotati di una segnatura
univoca, l’esecuzione
periodica di controlli sulla
loro effettiva presenza e
sulla loro corretta
collocazione sugli scaffali,
nonché sulla loro integrità
fisica e il loro stato di
"salute" garantirà che il
patrimonio affidato alle cure
di un attento custode possa
resistere tale e quale in
eterno. In questa prospettiva,
si può essere portati a
credere, ma erroneamente, che
la soluzione più favorevole
alla conservazione sia
l’assenza totale di
interazione dei libri con
l’esterno [9].
Il
bibliotecario, tuttavia, non
può ridursi ad una sentinella,
ma ha anche un compito
indispensabile di mediatore,
ovvero di tramite fra i libri
e le persone. Persone che
possono essere studiosi — cioè
storici lato sensu,
filologi, paleografi e
codicologi — ma anche
semplicemente uomini di
cultura sensibili
all’acquisizione di nuove
conoscenze o addirittura
individui di istruzione media
o bassa che hanno anch’essi il
diritto di ammirare i cimeli
del passato, o se non altro di
conoscerne l’esistenza. Ne
scaturisce una contraddizione
di fondo, fra la tutela del
"bene libro" e i suoi
differenti tipi di fruizione,
ed è estremamente difficile
trovare, tra i due poli
opposti, un compromesso
soddisfacente per tutti.
Prima
ancora di esprimersi sotto
forma di comportamenti
concreti, la contraddizione ha
però un’essenziale valenza
ideologica. Lo scopo
intrinseco della conservazione
del passato non può essere
altro che una sua migliore
conoscenza, e
l’approfondimento della
conoscenza presuppone
necessariamente l’interazione
diretta del cimelio con uno o
più osservatori e secondo
modalità diverse: singolo
esame da parte di uno o di più
osservatori simultanei,
successione nel tempo di più
osservazioni di un medesimo
osservatore, successione nel
tempo di più osservazioni
condotte da osservatori
diversi. Esame autoptico, ma
eventualmente strumentale che,
anche senza essere
distruttivo, espone comunque
gli oggetti ad una serie di
manipolazioni diverse da
quelle funzionali al loro uso
abituale, e di conseguenza
virtualmente pericolose.
La
contraddizione è sempre
esistita, ma tende oggi
rapidamente ad acuirsi — per
ragioni diverse e complesse —
traducendosi in prassi e
regolamenti che non di rado,
visti dall’esterno, assumono
accenti sempre più vessatori [10].
Il mio
punto di vista in proposito
non può essere che quello di
chi osserva i libri a fini di
ricerca e che ritiene perciò
irrinunciabile la possibilità
— certo, non indiscriminata —
di un contatto diretto con
l’oggetto. In questa
prospettiva, il compito
affidato al
bibliotecario-mediatore può
essere scomposto in tre
aspetti essenziali:
- poiché la biblioteca è un
"punto di convergenza
virtuale" di studiosi
residenti in ogni parte del
mondo, è necessario che sia
disponibile a distanza una
descrizione il più possibile
accurata dei fondi, cioè in
sostanza un catalogo;
- poiché la biblioteca è
anche un "punto di
convergenza materiale", è
opportuno facilitare al
massimo, dal punto di vista
logistico, l’accesso degli
studiosi ai fondi;
- poiché il pubblico colto
ma non specialista e il
"grande pubblico" non hanno
accesso diretto alla
consultazione dei fondi, si
pone l’esigenza di proporre
un accesso ragionato e
coerente ai cimeli più
rappresentativi della
cultura scritta o dell’arte
del passato, vale a dire —
in termini tradizionali —
una mostra.
Si
tratta di tre compiti di
ciascuno dei quali nessuno
negherebbe il peso e la
complessità, e che non a caso
non sono mai stati svolti né
tutti simultaneamente, né
dappertutto, né con piena
efficienza. La migliore
approssimazione — almeno per i
primi due aspetti — può essere
forse individuata nella
situazione delle biblioteche
anglosassoni nel corso del XIX
secolo e fino alla fine degli
anni ‘70 del XX, quando
l’accesso al mondo del
manoscritto e del libro antico
era riservato ad un’élite.
Questa élite era
essenzialmente costituita da
filologi o storici dell’arte,
il cui rapporto con il libro
era limitato essenzialmente al
testo e all’immagine, il cui
contenitore era sovranamente
ignorato. Chi intratteneva
rapporti di studio con
l’oggetto-libro era il
bibliotecario: personaggio
solitamente di grande cultura
e competenza, che era in grado
di coadiuvare lo studioso
esterno, di condurre
autonomamente la propria
ricerca, e soprattutto di
produrre cataloghi che, per
l’epoca, erano spesso di
notevole qualità [11].
In
sostanza, nel mondo
anglosassone la carriera del
bibliotecario era lo sbocco
pressoché obbligato di chi
aspirava a lavorare sul libro
antico, manoscritto o a
stampa, anche se non mancavano
occasioni di "trasferimento"
dalle biblioteche
all’Università. Con maggiore o
minore fortuna, lo stesso
modello si è riproposto anche
altrove, per esempio in
Francia, ove gli specialisti
del manoscritto e del libro
antico provengono ancora, in
massima parte, da una
prestigiosa scuola speciale:
l’"École nationale des
chartes" [12].
Quanto
alla Germania, la posizione di
indiscussa preminenza nella
gestione e valorizzazione del
patrimonio manoscritto si deve
in misura pressoché esclusiva
all’alto profilo dello
"Handschriftenbibliothekar",
responsabile in prima persona
— insieme a storici e filologi
— non soltanto del progresso
delle conoscenze, ma anche
dell’insegnamento
universitario delle discipline
paleografiche e codicologiche,
che la struttura accademica
relega al ruolo secondario di
"Hilfswissenschaften" [13].
In altre
realtà nazionali, invece, fra
cui l’Italia, la figura del
bibliotecario-ricercatore —
pur se non del tutto assente
nei fatti — non si è mai
realmente affermata. Per il
nostro Paese, una delle cause
va forse ricercata
nell’esistenza di numerose
cattedre di paleografia,
codicologia e bibliologia, che
hanno paradossalmente
"frenato" il definirsi di una
fisionomia, e di una carriera,
di bibliotecario capace di
portare avanti, al di fuori e
indipendentemente
dall’Università, iniziative
autonome di studio e di
ricerca.
Una
"drammatica" conseguenza di
questa situazione è lo stato
deplorevole, sul piano
quantitativo, della
catalografia italiana per ciò
che riguarda i manoscritti.
Certo, esso è dovuto almeno in
parte alla sovrabbondanza
scoraggiante e alla
dispersione capillare del
materiale da descrivere. Ma va
riconosciuto che in Italia la
catalografia è rimasta, e
rimane ancora per molti
aspetti, una no man’s land,
ove ciascuna delle parti
potenzialmente coinvolte ha
cercato sistematicamente di
circoscrivere o attribuire ad
altri le responsabilità.
La
contraddizione è nota ed
evidente: al pari
dell’edizione critica dei
testi, la catalografia dei
manoscritti richiede una vasta
esperienza (la memoria di
centinaia di volumi visti in
precedenza) e numerose e
svariate competenze: testuali,
filologiche, paleografiche,
iconografiche e non da ultimo
codicologiche, che è
estremamente raro trovare
riunite nella medesima
persona. Succede inoltre
comprensibilmente che chi le
possiede — e che è di norma
uno studioso già maturo e
affermato — non abbia voglia
di dedicarsi ad un compito
tanto ingrato e gravoso: non a
caso, è rarissimo che i
titolari di cattedre
universitarie abbiano firmato
cataloghi redatti di persona,
e le non molte eccezioni
riguardano per lo più lavori
svolti in giovane età. D’altro
lato, a parte la mancanza di
tempo e l’assenza di canali di
formazione e di reclutamento
specifici, il bibliotecario
volonteroso rischia
comprensibilmente di sentirsi
troppo poco "attrezzato",
soprattutto quando si tratta
di datare e localizzare i
manoscritti, e inutilmente
esposto alle critiche di chi
invece lo è.
Di qui la
scarsità delle iniziative [14]
e, soprattutto, il loro
indefinito prolungarsi nel
tempo; di qui anche il ricorso
sempre più massiccio alle
procedure di outsourcing,
che consentono in situazioni
specifiche — affiancandosi o
integrandosi alle iniziative
nazionali — di portare avanti
il lavoro di descrizione
affidandolo ad imprese private
(cooperative o società),
obbligate per contratto a
rispettare costi e tempi di
consegna ragionevoli. Una
soluzione palliativa di
privatizzazione, giudicata non
a torto come "un grande passo
avanti" [15]
— per il vantaggio indubbio di
aver accresciuto
significativamente, negli
ultimi anni, la quantità del
materiale descritto —, ma
della quale non vanno
sottovalutati gli
inconvenienti [16],
il
principale dei quali consiste
appunto nel sancire una
situazione definitiva di
"scollamento" fra i
responsabili istituzionali dei
fondi antichi e il materiale
affidato alle loro cure [17].
La
tendenza delle discipline del
libro antico ad una sempre
maggiore specializzazione e il
conseguente complicarsi delle
esigenze degli studiosi
rendono improponibile il
ritorno alla figura del
"bibliotecario erudito" di una
volta, ma non bastano a mio
avviso a giustificare
l’abbandono generalizzato —
tanto da essere ormai evocato
come una realtà ineluttabile [18]
— del modello del
"bibliotecario-ricercatore",
abituato a far spazio, fra i
propri compiti di ufficio,
alle attività di catalogazione
e di scandaglio dei fondi. La
vera ragione del cambiamento
sembra purtroppo da
identificare nell’emergere non
casuale di una concezione
"neoliberale" della biblioteca
di conservazione, che è poi la
stessa che investe — o tenta
di investire — altri ambienti
e altre istituzioni. Secondo
tale concezione, l’attività
culturale — e quindi la
conservazione dei beni librari
del passato, come l’attività
di ricerca ad essi relativa —
è considerata come un lusso
marginale e inutilmente
oneroso. La sola attività
considerata "utile" è quella
rivolta a soddisfare i bisogni
del "grande pubblico", cioè
quella che — guarda caso —
comporta un massimo di
visibilità "mediatica" e,
sotto sotto, politica, a
livello locale.
L’affermarsi di questa visione
ha provocato gradualmente un
certo numero di conseguenze
che sarebbe difficile non
giudicare negativamente:
- le biblioteche tendono
sempre più a considerarsi
come proprietarie dei libri,
e non come gerenti,
nell’interesse comune, di un
bene di pubblica proprietà,
tendono quindi a far pagare
i loro servizi ai lettori, e
a farli pagare sempre più
cari [19].
In
particolare, si è assistito
negli ultimi anni ad una
crescita esponenziale del
costo delle riproduzioni:
non solo le riproduzioni di
immagini, ma anche quelle di
pagine di testo; non solo
quelle destinate ad uno
sfruttamento commerciale, ma
anche quelle destinate
all’uso scientifico;
- l’organizzazione sempre
più intensa di mostre
comporta, dal canto suo, un
duplice effetto negativo. Da
un lato, espone i cimeli più
preziosi al degrado e al
pericolo più grave, lo
spostamento su lunghe
distanze (la più cospicua
delle assicurazioni non
sarebbe in grado di
ripristinare il bene
perduto) [20].
Dall’altro
— cosa ben più grave —
focalizza l’interesse del
pubblico sulla componente
più appariscente dei libri
antichi — la miniatura — e
l’interesse di una
biblioteca sui suoi volumi
più celebri, che si contano,
nel migliore dei casi, sulle
dita di una mano. La
biblioteca diventa così non
più il deposito naturale di
centinaia o migliaia di
oggetti interessanti che
contengono testi
interessanti e che il
curioso del passato è
invogliato ad interrogare
con profitto, ma una vetrina
di immagini, come se la
produzione di libri potesse
riassumersi nella
fabbricazione dei "bei
libri", estremamente
minoritari (e la cui
presenza nei fondi attuali è
per di più sopravvalutata
dalla selettività del
processo di perdita a
scapito dei libri meno
ricchi), e come se la storia
del libro potesse essere
confusa tout court con
la storia dell’arte. D’altro
lato, la concentrazione
dell’interesse sui "bei
libri" aumenta la pressione
del pubblico desideroso di
"toccarli con mano", nonché
la pressione dell’editoria
commerciale, interessata a
riprodurli in cataloghi e
fac-simili venduti a
carissimo prezzo [21].
L’accesso
reale di un’élite
ristretta ad una grande
quantità di libri è così
sostituito dall’accesso
virtuale di una grande
quantità di persone ad una élite
assai ristretta di
libri. Pur senza voler
sottovalutare l’interesse e
l’utilità di una
divulgazione accorta e
corretta, c’è da chiedersi
seriamente se il cambiamento
in atto rappresenti un vero
e proprio progresso;
- la figura del
bibliotecario, di
conseguenza, muta
radicalmente statuto.
Completamente tagliato fuori
— anche soltanto per
mancanza di tempo — dal
circuito della ricerca per
trasformarsi in semplice custos
librorum, viene ad
essere oberato per di più da
un peso crescente di
mansioni amministrative e da
un nuovo ruolo di
organizzatore di
manifestazioni mediatiche,
che lo obbliga a continue e
spettacolari riconversioni,
in funzione di un calendario
di eventi di cui spesso non
è neppure il promotore. Il
reclutamento di nuovo
personale — da sempre
operato senza tenere alcun
conto delle specializzazioni
in possesso dei candidati —
ricalca ovviamente questa
nuova realtà. Il rischio è
che si generalizzi,
soprattutto nelle grandi
biblioteche, una figura di
"bibliotecario-burocrate",
sostanzialmente estraneo ai
fondi della cui gestione è
ritenuto responsabile, in
quanto non ne conosce in
maniera approfondita né il
contenuto, né la storia, né
l’interesse; peggio ancora,
non riceve nessun incentivo
a maturare questo tipo di
conoscenze. Risultato
finale: il
"bibliotecario-burocrate" è
incapace di svolgere il suo
ruolo di intermediario fra
libri e studiosi: non
conosce i libri, e non è
quindi in grado di
regolamentarne
ragionevolmente l’accesso;
considerato responsabile
dell’integrità di un fondo
senza avere la formazione
necessaria, tenderà
logicamente a privilegiare
il suo ruolo di sentinella e
a rifugiarsi in
comportamenti radicali,
ispirati non tanto dalla
preoccupazione di tutelare i
libri, quanto dal
comprensibile desiderio di
perpetuare la propria
tranquillità [22].
Quest’ultima "evoluzione"
costituisce una minaccia grave
per lo studioso del libro, che
ha un bisogno vitale di
accedere direttamente ai fondi
antichi: senza contare il
fatto che eliminare
l’interazione concreta fra
libro e studioso finisce col
vanificare il principio stesso
che ispira i divieti, cioè la
conservazione dell’oggetto,
così come l’esclusivismo del
collezionista bibliofilo — che
si impadronisce di un cimelio
non per rendere servizio
all’arte e alla scienza, ma
unicamente per rinchiuderlo
nella propria cassaforte
vietandone severamente
l’accesso — produce effetti
deleteri per la storia della
cultura.
La
tendenza a preservare ad ogni
costo l’informazione materiale
contenuta in un libro è
certamente un obiettivo
pienamente condivisibile,
insorto anche come reazione
agli scempi compiuti da un
passato di pratiche troppo
disinvolte di restauro, che
hanno prodotto danni spesso
irrimediabili.
Tuttavia
— come ben sanno i
professionisti del settore —
le esigenze della
conservazione non possono
essere ridotte
all’applicazione di ricette
assolute, ma interagiscono
necessariamente e si misurano
costantemente con quelle,
altrettanto legittime, della
conoscenza, ove si tratta di
decidere se l’acquisizione di
un’informazione può implicare
la perdita di un’altra,
giudicata relativamente meno
importante [23].
Se
è inammissibile che lo
studioso possa arrogarsi da
solo il diritto di intervenire
pesantemente e senza controllo
su un libro antico, è
altrettanto insoddisfacente
lasciare che un bibliotecario
privo di una formazione
specifica sia il solo a
decidere ciò che è lecito o
non è lecito fare, e chi ha la
facoltà di fare.
Un
contributo significativo alla
soluzione dell’antagonismo
latente fra conoscenza e
preservazione potrebbe venire
dal progredire della
tecnologia, che si traduce sia
nella messa a punto di
tecniche non distruttive e di
strumenti di osservazione meno
invasivi, che nella diffusione
sempre più sofisticata,
capillare e flessibile via
Internet dell’informazione
relativa ai fondi antichi
(cataloghi e immagini).
Ma il
progresso in sé non è
sufficiente se non è sorretto
da una volontà precisa di
assimilarlo e di servirsene
correttamente. Un esempio
istruttivo di "distorsione
tecnologica" è offerto dal
microfilm, che per anni ha
svolto con successo il suo
ruolo di mediatore fra il
libro e lo studioso. La sua
funzione era chiara e da tutti
accettata: sostituire l’esame
autoptico del libro quando lo
studioso si trovava
nell’impossibilità di recarsi
sul posto. Grazie al
microfilm, lo studioso poteva
riunire presso di sé una
biblioteca virtuale che non
avrebbe mai avuto modo di
consultare simultaneamente, e
ne conseguiva un vantaggio non
trascurabile. Secondariamente,
il microfilm assolveva
implicitamente, e ottimamente,
un’altra funzione: quella di
rendere inutile, in molti
casi, l’accesso diretto e
quotidiano al libro. Per chi
si interessa al testo in vista
dell’allestimento di
un’edizione critica, l’esame
autoptico di tutti i testimoni
— ivi compresi i più tardi —
di una tradizione manoscritta
nutrita costituirebbe un
lavoro inutilmente gravoso.
Al giorno
d’oggi, l’ideologia del
feticcio tende ad imporre il
microfilm e i suoi più moderni
surrogati come una barriera
invalicabile eretta fra il
libro e lo studioso. Non più
uno strumento di mediazione,
ma l’elemento di un processo
di "estromissione
programmata". Con i progressi
sempre più rapidi e
sorprendenti delle tecniche di
riproduzione, archiviazione,
diffusione e manipolazione
digitale delle immagini, la
possibilità di accedere al
documento originale rischia di
essere, in un prossimo futuro,
sempre più drasticamente
ristretta, in nome
dell’esigenza di proteggere
l’"oggetto-libro" – al pari di
qualunque altra testimonianza
della cultura materiale del
passato – da manipolazioni
usuranti, e di preservarne la
durata nel tempo.
Intraprendere un viaggio di
centinaia di chilometri per
arrivare in una sala
manoscritti e vedersi negare
l’accesso diretto all’oggetto,
con l’invito ad accontentarsi
di un microfilm o di un CD-Rom
che si sarebbe potuto
tranquillamente consultare a
casa propria, è un’esperienza
inaccettabile ed estremamente
frustrante.
L’esempio
tende a dimostrare che l’uso
delle nuove tecnologie è
virtualmente capace, come lo è
stato a suo tempo il
microfilm, di risolvere molti
problemi. Nuove prospettive si
aprono, in particolare, per
una catalografia e una
documentazione dei fondi "on
line" e "in progress",
alimentata collettivamente,
rispetto alla quale il ruolo
del bibliotecario di fondi
antichi si carica
potenzialmente di un’ennesima
valenza, di coordinatore sul
piano della gestione, anche se
non di esclusivo responsabile
sul piano scientifico [24].
Un altro
ambito in cui la
discrezionalità del
bibliotecario assume un ruolo
cruciale riguarda la
limitazione quotidiana del
numero dei manoscritti
consultabili e la negazione
categorica dell’accesso degli
studiosi ai depositi, che
rende materialmente
impossibile la conduzione di
indagini fondate sul
rilevamento sistematico di
dati codicologici o
bibliologici. In questo caso,
l’applicazione dogmatica di un
regolamento rischia di avere
come conseguenza
l’innalzamento di un vero e
proprio "muro" tra il libro e
lo studioso e l’impossibilità
di condurre a termine
determinate ricerche.
Viceversa, la presenza di
bibliotecari adeguatamente
formati e capaci di
discriminare può tradursi —
come è già avvenuto — in
un’opportunità di progresso [25].
Più che
trasformarsi radicalmente, la
formazione del bibliotecario
di fondi antichi si è quindi
venuta a caricare di un
insieme di nuove incombenze
che tuttavia o far passare in
secondo piano il fondamento a
mio avviso imprescindibile
della sua professionalità,
vale a dire la conoscenza
approfondita dell'informazione
veicolata dall'oggetto
archeologico — manoscritto o
libro a stampa — da un lato
per non rischiare di sminuirla
o di perderla a causa di
interventi invasivi,
dall’altro per facilitarne la
conoscenza da parte di chi fa
ricerca (senza escludere che
possa trattarsi del
bibliotecario stesso) [26].
Non me la
sento, perciò, di concordare
con quanti stimano che la
specificità del bibliotecario
del libro antico vada ridotta
al suo rapporto con il libro
come oggetto fisico — sempre
meno esclusivo nella prassi
del bibliotecario "moderno" — e che le
sue competenze precipue di "conservatore" potrebbero
pertanto estendersi all’intero
ambito dei libri "non
virtuali", antichi e moderni.
Ciò
premesso, al crocevia fra
istanze di vario ordine —
conservare, conoscere,
mediare, gestire, valorizzare
— la formazione del
bibliotecario di fondi antichi
non può che definirsi, in
concreto, come la risultante
di un intreccio fra saperi
tradizionali e nuove
competenze, queste ultime a
loro volta articolate in
conoscenze teoriche e abilità
di carattere puramente
tecnico-pratico (troppo spesso
confuse).
Il
problema della definizione di
un percorso formativo efficace
consiste dunque, in teoria,
nell’organizzare questo
insieme variegato di saperi in
una progressione coerente e
graduata e nell’operare le
selezioni necessarie — non è
compito dell’Università
fornire un sapere "chiuso" né
puramente strumentale —; a ciò
si aggiunge la difficoltà
pratica di inquadrare tali
saperi nell’architettura dei
raggruppamenti disciplinari e
soprattutto di definirne
concretamente i contenuti.
Pur
conoscendo a sufficienza i
vincoli e le insidie delle
tabelle ministeriali e più in
generale le acrobazie che
comporta l’"invenzione" di
corsi di "nuovo ordinamento",
sono priva di esperienza
diretta nella definizione di
percorsi formativi di livello
triennale o biennale per
bibliotecari e archivisti: mi
limiterò quindi a proporre
alcune osservazioni di fondo
suggeritemi dalle esperienze
avviate, tenendo conto che,
soprattutto per quanto
concerne le lauree
specialistiche, appena
inaugurate, i siti Internet
delle facoltà non forniscono
sempre i dati necessari per
farsi un’idea concreta delle
specifiche proposte formative.
Sorvolerò
su un primo ordine di
considerazioni, relativo alle
lauree triennali in
archivistica e biblioteconomia
[27],
i
cui "punti critici" possono
essere riassunti come segue:
- l’inquadramento
all’interno della classe 13
di lauree triennali in
"Scienze dei beni
culturali", contenitore
troppo diversificato di
"beni culturali" la cui
gestione comporta profili
diversi;
- l’eccessiva eterogeneità
dell’offerta, caratterizzata
nella maggioranza dei casi
da una base preponderante di
materie "liceali" di area
umanistica e da un
corollario alquanto
frastagliato di insegnamenti
afferenti ad aree diverse
(giuridica, economica,
sociologica, scientifica),
giustapposti in proporzioni
variabili. La situazione
delle lauree triennali
tradisce, da un lato, una
contraddizione intrinseca
nella riforma, combattuta
fra la tentazione di
appiattire la formazione di
base su un livello
"ipergeneralistico" e
l’esigenza di conferire alla
laurea triennale una
seducente coloritura
professionalizzante.
Dall’altro, essa riflette la
sostanziale assenza di
prospettive occupazionali
definite, e adeguatamente
regolamentate, per il
laureato triennale;
- l’incidenza ridotta e il
carattere del tutto
episodico dei cosiddetti
stage o "tirocini": anche se
è vero che l’istituto
giuridico della convenzione
consente di stabilire a
questo fine rapporti con
soggetti pubblici e privati,
lo stage – quando realmente
effettuato — risulta spesso
sganciato dalla didattica
effettiva, di durata troppo
breve e non sostenuto da una
programmazione concreta
delle attività, concordata
fra università e istituzione
accogliente.
So di
esprimere un’opinione che
rischia di essere scarsamente
condivisa, ma confesso di non
essere persuasa della
necessità assoluta di una
laurea triennale
specificamente orientata verso
la professione di
bibliotecario e di avere dubbi
ancora più forti
sull’opportunità di
individuare una classe di
lauree triennali specifica per
la biblioteconomia. Sarei
piuttosto propensa a
concentrare lo sforzo di
definizione di un percorso
specificamente
professionalizzante sul
successivo livello biennale,
eventualmente integrato
dall’ulteriore apporto di
master e specializzazioni,
adeguatamente mirati alla
trattazione di aspetti
specifici.
In ogni
caso, sono del parere che la
responsabilità della
formazione del bibliotecario
di fondi antichi competa alla
laurea specialistica, da
rendere accessibile — con le
necessarie integrazioni — a
partire da un ventaglio
definito, ma non
aprioristicamente ristretto,
di lauree triennali ad
orientamento "umanistico".
Lo spazio
limitato rappresentato dai 120
crediti impone evidentemente
una selezione oculata e
severa. Dovendo operare delle
scelte drastiche, darei per
scontato il possesso di una
imprescindibile "cornice"
umanistica (conoscenze
storiche, linguistiche e
letterarie): ritengo infatti
che un’Università più
concretamente (anche se non
esclusivamente) orientata
verso il mondo del lavoro
dovrebbe uscire dal circuito
di "coazione a ripetere", ad
ogni livello successivo, il
bagaglio delle conoscenze
scolastiche, addossando la
responsabilità di una simile
scelta all’abbassamento
qualitativo degli standard
della formazione liceale. Una
porzione significativa del
monte ore complessivo va
indirizzata piuttosto alla
costituzione di una solida
cultura settoriale specifica
(codicologia, paleografie [28],
storia
del libro a stampa, storia
della decorazione del libro
manoscritto e a stampa, storia
delle biblioteche, metodologie
e tecniche della conservazione
e del restauro [29]
…), non limitata però
all’acquisizione delle basi
teoriche, ma anche — direi
anzi soprattutto — orientata
verso l’applicazione concreta
delle competenze acquisite, ad
esempio nel settore della
catalogazione [30],
per
far fronte al paradosso
attuale per cui le persone in
grado di catalogare si formano
attualmente al di fuori delle
Università [31].
In
questo quadro penso che
debbano rientrare anche
indispensabili conoscenze di
informatica e telematica
applicata, evitando tuttavia
ogni eccesso di teorizzazione
astratta e svincolata dalle
concrete esigenze della
professione.
Mi
convince assai meno l’enfasi
portata sulla presenza di
generici insegnamenti
appartenenti all’area della
sociologia e della scienze
della comunicazione [32].
Per
il bibliotecario "di base",
penso che i problemi posti
dalle relazioni interne
all’ambiente di lavoro e da
quelle esterne con il pubblico
specializzato e non (ivi
compresa l’organizzazione di
eventi), possano essere
affrontati e risolti
utilizzando l’esperienza
acquisita sul campo e un po’
di "sano buon senso" [33];
altro
è ovviamente il discorso per
quanto concerne i ruoli
direttivi, i cui elementi di
professionalità specifica ben
si prestano a costituire
l’oggetto di master
opportunamente mirati
all’approfondimento di
tematiche particolari.
Un
discorso analogo mi sembra
possa valere per quanto
concerne i contenuti
funzionali all’acquisizione di
competenze gestionali, fatta
salva la necessità di un
essenziale inquadramento
legislativo e di
un’introduzione alle
problematiche della gestione
amministrativa e finanziaria,
la cui trattazione
approfondita potrà essere più
utilmente rimandata, per
quanti si troveranno ad averne
espressamente bisogno in una
fase ulteriore della carriera,
ad un apposito corso
integrativo post lauream.
Il nodo
veramente cruciale mi sembra
essere però un altro, vale a
dire quello dei contatti
effettivi fra formazione
accademica e mondo del lavoro,
che significa, nello specifico
— la quantità e soprattutto la
qualità dei rapporti fra
l’Università e il mondo delle
biblioteche. Nel microcosmo
del libro antico, non mancano
esempi recenti di interazione
"virtuosa", che hanno dato
vita a progetti e prodotti
notevoli per livello
scientifico e per potenziale
innovativo [34].
Non
ci si deve tuttavia nascondere
che i rapporti "istituzionali"
fra studiosi e bibliotecari
sono — oggi più che in passato
— viziati da uno squilibrio di
fondo, per cui una sola è di
fatto la parte cui spetta il
ruolo di formulare proposte,
condurre iniziative,
monitorarne e verificarne i
risultati, con il rischio che
i progetti avviati manchino
del necessario radicamento
nella sede coinvolta e
finiscano con l’arenarsi,
malgrado le buone premesse,
per mancanza di personale
interno in grado di
assicurarne autonomamente la
continuità.
Un
indizio a mio parere
significativo dell’interazione
tutt’altro che ottimale, sul
terreno della formazione
congiunta, fra Università e
biblioteche (non soltanto di
conservazione) sta nella
limitata incidenza, anche sul
curriculum biennale,
dell’attività pratica di
tirocinio, quantificata in un
numero assolutamente
minoritario di crediti
formativi, a fronte dei lunghi
periodi di "formazione sul
campo" previsti dalla
formazione per bibliotecari
nei principali Paesi d’Europa
[35],
e
spesso non sostenuta — se non
unicamente sulla carta — da un
"progetto formativo"
puntualmente concordato con
l’istituzione accogliente. Già
rilevata a livello di
triennio, la scarsità del
ricorso all’attività pratica,
a fianco della formazione
accademica, costituisce, a mio
parere, la vera "occasione
perduta" della riforma. Per la
stessa ragione, anche la
redazione della tesi finale
rischia di rimanere un saggio
puramente teorico e non
un’occasione di misurarsi con
una potenziale attività
professionale. È vero che la
prova finale può consistere in
un lavoro specificamente
attinente gli aspetti più
formazione ricevuta, fra cui
ad esempio, la redazione di un
catalogo, ma è nota la scarsa
considerazione di cui gode, in
ambiente accademico, questo
genere di attività, cui viene
non di rado più o meno
esplicitamente negato lo
statuto di lavoro scientifico.
È chiaro
che, per quanto concerne il
libro antico, l’ideale di una
formazione integrata
presuppone l’attivazione
selettiva di curricula specifici
in un numero limitato di
sedi, caratterizzate
possibilmente dalla prossimità
di fondi significativi di
libri antichi, oltre che da
una tradizione consolidata di
studi sul libro manoscritto.
Non è un caso che attualmente,
all’interno delle 12 proposte
di laurea specialistica
attivate o annunciate
all’interno della classe 5/S
("Archivistica e
biblioteconomia"), solo tre curricula,
inaugurati ad Arezzo, Pavia e
Venezia [36],
si
qualificano per l’attenzione
specifica e quantitativamente
significativa dedicata al
libro (e al documento)
medievale [37].
Se
l’offerta delle singole sedi
risulta difficilmente
confrontabile per via
dell’elevato livello di
discrezionalità delle scelte
operabili all’interno delle
diverse tipologie di
insegnamenti "di base",
"caratterizzanti" ed "affini",
va attirata l’attenzione sul
diverso peso attribuito alla
prova finale (20 CFU ad
Arezzo, 35 a Pavia, 40 a
Venezia) e allo stage o
tirocinio, di incidenza
ovunque marginale (8 CFU a
Venezia, 10 ad Arezzo, numero
non quantificato a Pavia).
Credo che per una valutazione
dell’efficacia dei percorsi
proposti sia opportuno —
ammesso che le riforme che si
susseguono a ritmo incalzante
ce ne offrano la possibilità —
attendere per entrambe almeno
il compimento dei primi cicli
appena avviati. Come docente
dell’Università di Cassino, mi
spiace invece dover notare
l’assenza — speriamo
provvisoria — di una proposta
proveniente dalla mia sede di
appartenenza, caratterizzata
da una ricca tradizione di
studi sul manoscritto,
proposta che verrebbe
oltretutto a colmare un vuoto
relativo al centro-sud.
A Cassino
è attiva invece sin dal 1987
una "Scuola di
specializzazione per
conservatori di beni
archivistici e librari della
civiltà monastica" — poi
ridenominata "Scuola di
specializzazione per
conservatori di beni
archivistici e librari della
civiltà medievale" — di durata
triennale e accessibile
tramite concorso [38].
I
dodici insegnamenti che
compongono a tutt’oggi il
piano didattico — fra i quali
non compaiono né la
biblioteconomia, né la storia
delle biblioteche, né alcuna
nozione di teoria e tecnica di
catalogazione, né tanto meno
l’informatica applicata a
questo àmbito [39]
— qualificano eloquentemente
la Scuola come una struttura
orientata di fatto più verso
la ricerca che verso la
formazione professionale (lo
conferma il fatto che molti
fra gli iscritti o i diplomati
sono risultati vincitori di
dottorati di ricerca e alcuni
hanno poi trovato collocazione
stabile nell’Università). Ciò
non toglie che essa abbia
contribuito
significativamente, negli
ultimi anni, ad alimentare
l’organico dei bibliotecari
assunti attraverso gli ultimi
concorsi pubblici, alcuni dei
quali prestano attualmente
servizio in prestigiose
biblioteche di conservazione.
Se il programma didattico
reclama evidentemente un
ripensamento legato
soprattutto all’evoluzione
delle tecnologie, alla luce di
quanto si è venuto osservando
sino ad ora il limite evidente
della Scuola consiste, ancora
una volta, nella mancanza di
un’adeguata dose di pratica da
affiancare alla teoria,
mancanza solo in parte
supplita dall’iniziativa
autonoma di singoli docenti
animatori di progetti alla cui
realizzazione gli
specializzandi partecipano a
pieno titolo [40].
La
definizione di una proposta di
ordinamento riformato,
articolato su due anni invece
che sugli attuali tre, dovrà
dunque porsi l’obiettivo di
caratterizzare più decisamente
la fisionomia della Scuola
come livello superiore di
completamento di un percorso
di formazione professionale
specialistica avviata con la
laurea biennale, e che non me
la sentirei di liquidare come
un inutile posticipo del
momento di ingresso nel mondo
della professione [41].
Per
finire, merita infine almeno
un cenno il panorama dei
master e degli altri corsi di
livello universitario che
costituiscono, in generale,
una novità recente nel
panorama della formazione e la
cui offerta ha investito anche
il settore specifico del libro
antico e indirettamente la
stessa "professione
bibliotecario". Il successo
riscosso — malgrado i costi di
iscrizione non di rado elevati
— da questo genere di
iniziative dà la misura delle
difficoltà di inserimento
diretto nel mercato del lavoro
incontrate dai giovani in
possesso di un titolo
universitario, ma anche della
richiesta di profili
professionali caratterizzati
da un apporto di specifiche
competenze, di carattere più
marcatamente operativo, anche
se innestate su una solida
base teorica, oltre che dalle
esigenze dell’aggiornamento e
della formazione permanente.
Non è un caso che — a
differenza dei curricula
universitari — i master
prevedano, nella norma, lo
svolgimento di consistenti
periodi di stage presso
strutture convenzionate. Anche
se non va sottovalutato il
rischio di una indiscriminata
proliferazione dei corsi,
oltre a quello di una
insufficiente selezione in
ingresso e della conseguente
eterogeneità dei partecipanti,
master e corsi analoghi
possono offrire all’aspirante
bibliotecario o al dipendente
già in servizio — ma anche a
chi aspira a contribuire come
professionista esterno al
censimento e alla
valorizzazione del libro
antico — un’opportunità
positiva di approfondimento di
tematiche puntuali, come ad
esempio il management o la
catalogazione delle raccolte [42].
Credo
difatti che l’attuale
complessità del mercato del
lavoro giustifichi la
compresenza di iniziative e
soggetti diversi nel campo
della formazione di
professionalità specificamente
mirate al libro antico —
bibliotecario, catalogatore,
gestore, valorizzatore,
restauratore — a condizione di
aver chiare le esigenze cui
ciascuna delle proposte
formative corrisponde e la
specificità dei compiti che le
figure formate sono chiamati
concretamente ad assolvere.
Note
bibliografiche
- A. Pratesi,
Formazione del
bibliotecario
conservatore, in Ruolo
e
formazione del
bibliotecario. Atti
del
29. Congresso
dell'Associazione
italiana biblioteche:
Firenze, 29 gennaio-1
febbraio 1981,
Firenze 1983, 79-86: 79.
- Diverso
sembra essere il quadro
suggerito dagli
intervenuti alla
conferenza europea
organizzata dalla Ligue
des Bibliothèques
Européennes de Recherche
(LIBER) sul tema The
Changing Role of the
Manuscript Librarian (The
Hague,
Koninklijke Bibliotheek,
5-8 marzo 2003): cf.
http://www.kb.nl/coop/liber/mss/,
con pubblicazione parziale
delle relazioni.
- La cesura è
la conseguenza di una
prassi già antica, che
risale già alla fine del
XV secolo, quando i codici
sopravvissuti nelle
biblioteche collettive,
diventati cimeli, vengono
censiti e confinati in
biblioteche di
conservazione riservate
all’attività filologica e
erudita. In assenza di una
disciplina storica
centrata sul libro come
manufatto, manoscritti e
libri a stampa verranno da
allora intesi come due
tipi di fonte totalmente
distinti, e quindi
consultati separatamente
dagli studiosi del
medioevo e da quelli
dell’età moderna.
Tuttavia, basta riflettere
sul carattere unitario
dell’oggetto, che
travalica il mutamento
della tecnica, perché il
carattere artificioso
della separazione appaia
con chiarezza: per un
lungo periodo difatti il
libro a stampa si sforza
di imitare l’aspetto del
manoscritto, di cui
riproduce le dimensioni,
la mise en page,
la scrittura e la
decorazione, mentre negli
inventari medievali
manoscritti e libri a
stampa coabitano senza
soluzione di continuità e
spesso la natura
dell’oggetto non viene
neppure menzionata. La
cesura fra le due
tipologie non trova alcuna
giustificazione sul piano
scientifico, e anzi la
difficoltà di osservare
simultaneamente
manoscritti e libri a
stampa antichi complica
notevolmente l’attività di
chi si dedica all’edizione
dei testi e alla storia
delle tradizioni
manoscritte, ma
soprattutto di chi lavora
alla ricostituzione, già
alquanto difficile in sé,
dei fondi medievali. Da
questo punto di vista,
appare vistosamente
assurdo un caso come
quello della Bibliothèque
nationale de France, ove
le due categorie di libri
sono oggi conservate in
due siti distinti e
fisicamente separati da
qualche chilometro
(François-Mitterand e
Richelieu-Louvois).
- I dati sono
calcolati a partire dal
CD-Rom International
Incunabula Short Title
Catalog (IISTC) —
basato sull’Incunabula
Short-title Catalogue
(ISTC) sviluppato alla
British Library a partire
dal 1980 — che censisce
tutte le edizioni
anteriori all’inizio del
XV secolo finora
conosciute.
- A. Bozzolo
– E. Ornato, Les
fluctuations de la
production manuscrite à
la lumière de l’histoire
de la fin du Moyen Âge,
"Bulletin philologique et
historique (jusqu’à 1610)
du Comité des travaux
historiques et
scientifiques", 1979,
51-75 (rist. in La
face cachée du livre
mèdiéval. L’histoire
du
livre vue par Ezio
Ornato, ses amis et ses
collègues. Avec une
préface d’Armando
Petrucci, Roma, Viella,
1997, 179-195).
- Su
implicazioni,
manifestazioni,
conseguenze di questo
atteggiamento si vedano,
in generale, gli
interventi raccolti nel
volume Ideologie e
pratiche del reimpiego
nell´alto medioevo,
Spoleto, Centro italiano
di studi sull'alto
medioevo, 1999 (Settimane
di
studio del Centro
italiano di studi
sull´alto medioevo,
XLVI).
- Sfortunatamente,
neppure
i beni soggetti a custodia
sono completamente esenti
da un progressivo degrado,
che una conservazione
adeguata è però in grado
di contrastare,
rallentandolo
significativamente.
- A. Bozzolo
– E. Ornato, Les
bibliothèques entre le
manuscrit et l’imprimé,
in Histoire des
bibliothèques françaises,
I. Les bibliothèques
médiévales du VIe
siècle à
1530, Paris 1989,
333-347 (rist. in la
face cachée,
245-272).
- La
circostanza che le
politiche di occultamento
non hanno mai sortito
effetti positivi sulla
conservazione del
patrimonio librario è
opportunamente
sottolineata da G.
Cavallo, I fondi di
biblioteca. Storia e
ricchezza di un
patrimonio da conservare,
"Libri e documenti", 24,
2-3 (1998), 1-5 (poi in Contributi
e
testimonianze, a
cura di C. Misiti,
Spoleto, Accademia
spoletina, 2000, 45-49,
48: "tutte le volte che la
conservazione è stata
esclusiva, chiusa,
occulta, inerte, è stata
una conservazione in
perdita"). Non va
dimenticato d’altra parte
che il tasso di
consultazione dei
manoscritti nelle
biblioteche di
conservazione è assai meno
elevato di quanto non si
creda, e soprattutto molto
eterogeneo, e non può
quindi essere considerato
come il principale
responsabile del loro
degrado: si vedano in
proposito le significative
statistiche, relative ad
un sondaggio effettuato su
un campione di 289
manoscritti della
Biblioteca Universitaria
di Torino, prodotte e
commentate da A. Vitale
Brovarone, Lector
cavat codicem,
"Gazette du livre
médiéval", 6 (printemps
1985), 13-16.
- Cfr. il
recentissimo, sconfortante
resoconto fornito da V. v.
Büren, Des manuscrits
condamnés au "couloir de
la mort", "Gazette
du livre médiéval", 43
(automne 2003) [in corso
di stampa].
- Per i libri
a stampa un esempio
tuttora insuperato — e
oggi irripetibile — è il
catalogo degli incunaboli
del "British Museum", in
undici volumi (Catalogue
of Books printed in the
XVth
Century now in the
British Museum,
London 1908-1971), frutto
della collaborazione di
una valentissima équipe
di grandi specialisti
della bibliologia. Quanto
alla catalogazione dei
manoscritti, per le
caratteristiche del
"modello inglese" e
l’influenza esercitata
nella sua affermazione dai
bibliotecari di fine
Ottocento, può bastare il
rinvio ad A. Petrucci, La
descrizione del
manoscritto. Storia,
problemi, modelli,
Firenze, La Nuova Italia
Scientifica, 1984, 33-36
(2a ed. Roma,
Carocci, 2001).
- Per la
presentazione delle
attività della scuola cfr.
http://www.enc.sorbonne.fr/
[consultazione
del 13.02.2004].
- Cfr. il
profilo efficacemente
tratteggiato da E. A.
Overgaauw, Paläographie
und
Kodikologie in
Deutschland: Philologen,
Historiker und
Bibliothekare,
"Gazette du livre
médiéval", 35 (1999),
46-52.
- Sorvolo su
altri aspetti della
questione (come ad esempio
la carenza, nelle sedi
minori, di sussidi
bibliografici
indispensabili
all’attività del
catalogatore)
adeguatamente messi in
luce da M. Palma, La
catalogazione dei
manoscritti in Italia,
"Segno e testo", 1 (2003),
333-351 (intervento
pronunciato alla
"Internationale Tagung der
Handschriftenbearbeiter,
Universität Marburg,
23.-25. September 2002",
leggibile anche in Rete
all’indirizzo
http://www.let.unicas.it/links/didattica/palma/testi/palma8.htm
[consultazione del
13.02.04]).
- Palma, La
catalogazione, 346.
- Cfr. ancora
Palma, La catalogazione,
346 e già in precedenza S.
Zamponi, Esperienze di
catalogazione di
manoscritti medievali, in
Libro, scrittura,
documento della civiltà
monastica e conventuale
nel basso Medioevo (secoli
XIII-XV). Atti del
Convegno di studio (Fermo,
17-19 settembre 1997), a
cura di G. Avarucci, R.M.
Borraccini Verducci e G.
Borri, Spoleto, Centro
italiano di studi
sull'alto medioevo, 1999,
471-498, e Id., Iniziative
di catalogazione di
manoscritti medievali,
"Studi Medievali", III s.,
40 (1999), 369-393
(riproduzione, con lievi
modifiche, del contributo
precedente).
- Il pericolo
è particolarmente grave
per il patrimonio antico
delle piccole biblioteche
locali, la cui vitalità e
valorizzazione dipendono
da un puntuale lavoro di
ricostruzione archivistica
dei fondi, subordinato
alla presenza in sede di
personale preparato: cfr.
E. Casamassima – L.
Crocetti, Valorizzazione
e
conservazione dei beni
librari con particolare
riguardo ai fondi
manoscritti, in Università
e tutela dei beni
culturali: il contributo
degli studi medievali e
umanistici. Atti del
convegno promosso dalla
Facoltà di Magistero in
Arezzo, Arezzo - Siena,
21-23 gennaio 1977,
a cura di Î Deug-Su - E.
Menestò, con una premessa
di C. Leonardi, Firenze,
La Nuova Italia 1981,
283-302 (rist. Spoleto,
CISAM 1992 [Quaderni
del centro per il
collegamento degli studi
medievali e umanistici
nell’Università di
Perugia, 7]).
- Si veda,
come esempio
particolarmente
significativo, l’opinione
di Franca Arduini,
direttrice di
un’istituzione di
conservazione prestigiosa
come la Biblioteca Medicea
Laurenziana: F. Arduini, "Rinascimento
virtuale". Il ruolo
delle biblioteche e
delle istituzioni
culturali italiane
nell’ambito del progetto,
"Biblioteche oggi", 8
(2002), 31-37: 33-34.
- Molto
discussa, in particolare,
la decisione di far pagare
l’accesso stesso ai beni
librari, come già avviene
da tempo, ad esempio, alla
Bibliothèque nationale de
France (per le tariffe
applicate cfr.
http://www.bnf.fr/pages/zNavigat/frame/pratic.htm
[consultazione del
13.02.04]).
- Cfr. le
condivisibili riserve
formulate in Associazione
italiana
biblioteche, Gruppo di
lavoro Conservazione e
libro antico, Esibire
libri: perché, come,
dove, "Bollettino
AIB" 1994, 3, 301-309, e
più in generale gli atti
della giornata di studio Segreti
in
vetrina. Utilità e danno
per la storia delle
mostre di libri,
documenti e cimeli,
a cura di C. Leonardi,
Firenze, s. l., 1996.
- Si veda
quanto osservato da A.
Nuovo, I bibliotecari
del
libro antico, in Oltre
confini e discontinuità.
Atti del XLVI Congresso
nazionale dell'AIB (Torino
11-13 maggio 2000), Roma,
Associazione italiana
biblioteche, 2002,
sull’evoluzione già
avvenuta delle biblioteche
di libri antichi e
manoscritti in "special
collections", cioè
depositi di oggetti del
patrimonio culturale, che
condividono eventi,
mostre, utenti, forme di
finanziamento analoghe a
quelle dei musei, con il
rischio di trascurare
nelle politiche di
valorizzazione i volumi
non dotati di valore
iconico.
- Come se non
bastasse, il
"bibliotecario-burocrate"
è sovente oberato dallo
svolgimento di funzioni
amministrative che
consistono fra l’altro
nello spendere i fondi,
più o meno straordinari,
resi disponibili dal
Ministero, in un arco
temporale precisamente
determinato e spesso assai
ridotto.
- Si pensi
all’abitudine di
spennellare di reattivo le
sottoscrizioni o le
menzioni di appartenenza
che erano illeggibili e lo
sono, per colpa di questa
pratica, rapidamente
ridiventate. Comportamento
che ci appare oggi, a buon
diritto, irresponsabile,
ma che deve essere
valutato in una
prospettiva storica,
considerato che il
bibliotecario —
sottovalutando magari gli
effetti secondari del
reattivo — non aveva
comunque altra scelta che
soddisfare la sua e
l’altrui sete di
conoscenza oppure rimanere
nell’ignoranza; e non
poteva certo aspettare —
perché non poteva
immaginare che ciò
avvenisse — che fosse
inventata in seguito
l’innocua lampada di Wood.
- Per
l’Italia, un modello in
questo senso è
rappresentato dal recente
Catalogo aperto dei
manoscritti malatestiani,
per il quale cfr.
http://www.malatestiana.it/manoscritti/progetto.htm
[consultazione del
13.02.04]; A. Cartelli –
A. Daltri – M. Palma – P.
Zanfoni, Il catalogo
aperto dei manoscritti
della Biblioteca
Malatestiana: un primo
bilancio, intervento
presentato al convegno Il
dono di Malatesta
Novello (Cesena,
21-23.III.2003),
disponibile all’indirizzo
http://www.let.unicas.it/links/didattica/palma/testi/palmac.htm
[consultazione
del 13.02.04]; M. Palma, Verso
il
"catalogo aperto",
intervento
presentato alle Giornate
delle biblioteche del
Veneto 2003 La Regione
e le biblioteche venete:
appunti per un percorso
(Venezia, 28-29
novembre 2003),
disponibile all’indirizzo
http://www.let.unicas.it/links/didattica/palma/testi/palmah.htm
[consultazione
del 13.02.04]). Molto più
banalmente, gli enormi
progressi compiuti dalle
tecnologie di acquisizione
digitalizzata delle
immagini – e il
conseguente abbattimento
dei costi delle
apparecchiature di livello
non professionale –
potrebbe consentire di
devolvere al lettore,
sotto il controllo del
bibliotecario, il compito
di fotografare le immagini
ad una risoluzione
sufficiente per uso
scientifico e di disporne
liberamente, mentre la
biblioteca rimarrebbe
proprietaria delle
immagini ad alta
risoluzione, che possono
essere sfruttate
commercialmente.
- Mi si
consenta di citare la mia
personale esperienza di
una ricerca sulla mise
en page del
manoscritto bizantino
(cfr. M. Maniaci, Conservazione
e
gestione della pagina
nel manoscritto
bizantino, Cassino,
Università degli studi,
2002), che sarebbe stata
irrealizzabile senza la
liberalità manifestata nei
miei confronti dall’allora
prefetto della Biblioteca
Apostolica Padre Leonard
E. Boyle e dal
viceprefetto Monsignor
Paul Canart,
concretizzatasi nella
possibilità di accedere
personalmente ai magazzini
per misurare direttamente
in loco, in tempi
ragionevoli, centinaia
di volumi.
- Questa
funzione a mio avviso
essenziale di "doppia
mediazione" chiama in
causa il problema delicato
del rapporto fra la
formazione del
bibliotecario di fondi
antichi e quella
dell’addetto al restauro
dello stesso materiale,
che non mi sento di
approfondire per mancanza
di competenze specifiche
(si veda almeno, in
proposito, C. Federici, La
formazione del
conservatore nel 2000,
in Bibliotecario nel
2000 : come cambia la
professione nell'era
digitale, a cura di
Ornella Foglieni, Milano,
Editrice Bibliografica,
1999, 138-145 [Il
cantiere biblioteca :
idee, progetti,
esperienze, 5], e
Id., La formazione
degli addetti allo
conservazione dei beni
librari, in Italia
–
Germania. Esperienze a
confronto in ambito
bibliotecario nel
settore della
conservazione.
Convegno organizzato dal
Goethe Institut Mailand e
dall’Archivio di Stato di
Milano (Milano, 20-21
settembre 2001), testo
leggibile all’indirizzo
http://www.goethe.de/it/rom/biblioth/conserva/federic2.htm
[consultazione del
13.02.2004]). Dando ormai
per scontata una visione
del restauro librario come
attività essenziale di
tutela del bene e di
conservazione
dell’informazione storica
e tecnologica da esso
veicolata, mi sembra
comunque naturale pensare
che bibliotecari e
restauratori — dovendo conoscere,
almeno in parte, le stesse
cose, ma non fare
le stesse cose — non
possano ignorarsi a
vicenda, ma neppure
confondersi. Ne potrebbe
conseguire l'idea di un
tronco comune di
formazione, ove
bibliotecario e
restauratore potrebbero
ricevere insieme
determinate nozioni di
base, e di due rami di
specializzazione in cui
ciascuno potrebbe quindi
approfondire ciò che
riguarda più direttamente
le proprie mansioni. Quel
che risulta difficile è
definire la giusta linea
di frontiera: è chiaro, ad
esempio, che il
restauratore deve
possedere buone nozioni di
chimica di biologia, ed
allenarsi ad un'attività
pratica che è quella del
restauro propriamente
detto; d’altro canto, il
bibliotecario deve
possedere tutta una serie
di conoscenze storiche e
"umanistiche" che non
competono direttamente al
restauratore — necessarie,
ad esempio, per la
catalogazione — e, sul
piano professionale,
sviluppare la capacità di
allestire e gestire i
magazzini, la sala di
consultazione, i metodi di
consultazione, la
riproduzione delle
immagini, l’organizzazione
di mostre… Di sfuggita, mi
limito a notare che questa
esigenza di una
"formazione mista" degli
addetti al restauro non mi
pare adeguatamente
soddisfatta dalle numerose
lauree triennali (ne ho
contate 18) attivate nella
classe 41 ("Tecnologie per
la conservazione e il
restauro dei beni
culturali) gestite
interamente — con
rarissime eccezioni —
all’interno di Facoltà di
matematica e fisica,
prevalentemente orientate
verso i beni archeologici
e artistici e
caratterizzate da una
presenza praticamente
irrisoria di insegnamenti
relativi alla storia del
libro.
- Per
un’analisi più
approfondita rimando al
lucido panorama delineato
da F. Berger, Europa
ante portas: riflessioni
sull'offerta formativa
delle università
italiane con l'avvio del
sistema 3+2,
"Bollettino AIB" , 2001,
4, 481-492; cfr. anche,
nello stesso fascicolo, A.
Petrucciani – S. Turbanti,
I corsi universitari
dopo la riforma: per
un’analisi dei contenuti
delle offerte didattiche,
"Bollettino AIB", 2001, 4,
493-500.
- Va
segnalata, a mio avviso,
come un dato negativo la
"scomparsa" almeno
apparente, nella maggior
parte dei curricula,
della codicologia (anche
sotto la dicitura di
"storia del libro
manoscritto"), che viene
ad essere implicitamente
inglobata nella
"paleografia" – come nella
denominazione ufficiale
del raggruppamento
scientifico M-STO 09 –
senza che risulti
possibile valutare lo
spazio ad essa
effettivamente dedicato.
- L’impossibilità
di
prescindere dalla
consapevolezza delle
problematiche di fondo
della conservazione e del
restauro librario solleva
la questione della
presenza nelle facoltà
umanistiche di
insegnamenti propri delle
scienze della natura,
tendenzialmente relegati —
data la difficoltà
oggettiva e la scarsa
propensione soggettiva a
costruire curricula
interfacoltà — ad una
manciata di crediti
scarsamente armonizzati
rispetto all’insieme.
- Non a caso,
Zamponi, Iniziative di
catalogazione, pone
l’accento sulle notevoli
difficoltà riscontrate da
giovani catalogatori pur
dotati di una solida
formazione accademica nel
passaggio dalla teoria
alla pratica della
descrizione.
- Va
segnalato, negli anni
scorsi, il fiorire —
peraltro episodico — di
specifici corsi di
formazione per
catalogatori, fra cui mi
limiti a citare a titolo
esemplificativo quello
triennale promosso nel
1997 dalla Fondazione
SPEBLA (Scuola
postuniversitaria europea
in beni librari e
archivistici, con sede a
San Gimignano), su cui
riferisce P. Innocenti, I
contenuti culturali
della formazione del
bibliotecario,
"Biblioteche oggi", 8
(1998), 40-46, e il "Corso
di perfezionamento per
catalogatori di
manoscritti" organizzato
nell’a.a. 2001-2002 dal
Dpartimento di Studi sul
Medioevo e il Rinascimento
dell’Università di Firenze
(cfr.
http://www.meri.unifi.it/meri/perfezionamenti.html
[consultazione del
13.02.2004]).
- Che sembra
invece la tendenza
imperante, non soltanto
nei curricula italiani,
ma anche ad esempio in
Francia, nelle scuole
nazionali di
specializzazione per
bibliotecari ("ENSSIB -
Ecole nationale supérieur
des sciences de
l’information et des
bibliothèques", con sede a
Lione, cfr. www.enssib.fr
[consultazione del
13.02.2004]), o più
comprensibilmente, data la
scarsità di fondi antichi,
in Canada ("EBSI - École
de bibliothéconomie et des
sciences de
l'information", con sede
presso l’Università di
Montréal, cfr.
http://www.ebsi.umontreal.ca/
[consultazione del
13.02.2004]).
- L’affermazione
si
fonda sull’esperienza
compiuta in prima persona
alcuni anni fa, insieme
alla collega Giulia
Orofino,
nell’organizzazione della
mostra Le Bibbie
Atlantiche. Il libro
delle Scritture fra
ideologia e
rappresentazione,
nelle due sedi di
Montecassino, Archivio
dell’Abbazia e Firenze,
Biblioteca Medicea
Laurenziana (cfr. il
catalogo omonimo edito a
cura di M. Maniaci – G.
Orofino, Milano, Centro
Tibaldi, 2000).
- Penso ad
esempio — oltre
all’esperimento di
"catalogo aperto" già
citato alla n. 21, alla
fiorente attività di
ricerca nel settore della
catalogazione sia dei
codici datati italiani (status
quaestionis sul
sito, di recente
inaugurazione,
http://www.lettere.unifi.it/MDI/
[consultazione del
13.02.04]) sia, più in
generale, del patrimonio
manoscritto di singole
regioni (Toscana, Veneto),
sostenuta dall’apporto
congiunto di docenti
universitari e
bibliotecari.
- In
generale, sulla formazione
dei bibliotecari in
Europa, cfr. A. M.
Caproni, Le scuole dei
bibliotecari fuori
d’Italia, con
un’appendice
relativa ai programmi
didattici delle Scuole
dei bibliotecari in
Europa, in Id., La
formazione professionale
del bibliotecario,
Milano, Editrice
Bibliografica, 1989 (Bibliografia
e
biblioteconomia,
36), 257-356.
- Università
degli Studi di Siena, polo
di Arezzo, laurea
specialistica "Libro –
testo – comunicazione",
percorso "Libro"
(http://www.unisi.it/letterearezzo/speclibrotestocomunicazione.htm
[consultazione del
13.02.2004]); Università
degli studi di Pavia,
laurea specialistica in
"Scienze archivistiche,
documentarie e
biblioteconomiche",
l’unica con un percorso
specifico, purtroppo non
dettagliato sul sito,
intitolato alle
"Discipline del documento
e del libro medievale"
(http://cor.unipv.it/offertaformativa/specialistiche/umanistica/lettere/biblioteconomia.html
[consultazione
del 13.02.2004]);
Università degli studi di
Venezia "Ca’ Foscari",
laurea specialistica in
"Archivistica e
biblioteconomia"
(http://lettere.unive.it/homeoffertaformativa.htm
e
http://lettere2.unive.it/ridi/biennio.htm
[consultazione del
13.02.2004]).
- Un quarto curriculum
specifico dovrebbe
trovare collocazione
naturale a Roma, come
erede del curriculum
per Conservatori di
manoscritti della "Scuola
speciale per Archivisti e
Bibliotecari".
- Provvisoriamente
sospesa
in ottemperanza all’art.
13, comma 6 del D.M.
509/99 (che prevedeva la
disattivazione delle
Scuole di tipologia e
durata non conforme alle
norme dell’U.E.), la
Scuola è tornata attiva a
partire dall’A.A.
2003-2004, riadottando
transitoriamente la
vecchia struttura, in
attesa della definizione
dei nuovi ordinamenti
didattici delle Scuole di
specializzazione ((l. 23
febbraio 2001, n. 29).
- Archivistica,
bibliologia
liturgica, cronologia
medievale, diplomatica,
filologia e tradizione del
Medioevo volgare,
fondamenti di
conservazione e restauro
di beni librari, storia
della cultura medievale,
storia della miniatura,
storia della scrittura
greca, storia della
scrittura latina, storia
del libro a stampa, storia
del libro manoscritto.
- Mi limito a
ricordare come esempio la
Bibliografia dei
manoscritti in scrittura
beneventana, edita
annualmente in volume dal
1993 e accessibile anche
on-line all’indirizzo
http://edu.let.unicas.it/bmb/index.html
[consultazione del
13.02.2004].
- Andrebbe
considerata del resto, a
mio avviso, la possibilità
di rendere possibile la
frequenza della Scuola in
concomitanza con lo
svolgimento di un’attività
lavorativa.
- L’offerta
specifica prevede
attualmente, sul primo
livello, un "Master
europeo in conservazione e
gestione dei beni
culturali", organizzato
congiuntamente dalle
università di Cassino,
Siena-Arezzo, Venezia,
Caen, Salamanca (cfr.
www.europeanmaster.it
[consultazione del
13.02.2004]) e un "Master
in catalogazione dei beni
archivistici e librari"
promosso dall’Università
di Chieti
(http://www.unich.it/master/cataloga.htm
[consultazione del
13.02.2004]), la cui
elevata frammentazione in
moduli di estensione anche
molto ridotta suscita
qualche perplessità; sul
secondo livello, un
"Master in Studi sul libro
antico e per la formazione
di figure di bibliotecario
manager impegnato alla
gestione di raccolte
storiche" proposto dal
C.I.S.L.A.B. (Centro
interdipartimentale di
sudi sui beni librari e
archivistici)
dell’Università di
Siena-Arezzo
(http://www.unisi.it/ricerca/centri/cislab/didattica_master/didatt.htm
[consultazione del
13.02.2004]) e un "Master
in Archivistica,
Biblioteconomia e
Codicologia. Riordinamento
e inventariazione degli
archivi. Catalogazione di
documenti manoscritti,
stampati e digitali"
organizzato dal
Dipartimento di studi sul
Medioevo e il Rinascimento
dell’Università di Firenze
(http://www.meri.unifi.it/meri/master.html
[consultazione
del 13.02.2004]). A
completamento del quadro,
vanno ancora ricordati il
"vecchio" corso di diploma
per Conservatore di
manoscritti ancora attivo
presso la Scuola speciale
per archivisti e
bibliotecari
dell’Università di Roma
"La Sapienza"
(http://w3.uniroma1.it/ssab/old/corsi.htm
[consultazione del
13.02.2004]) e l’offerta
della Scuola Vaticana di
Paleografia, Diplomatica e
Archivistica, articolata
in corsi singoli (di
Archivistica e Paleografia
e codicologia greca) e in
un percorso biennale
(http://www.vatican.va/library_archives/vat_secret_archives/docs/documents/vsa_doc_20051999_scuola_it.html
[consultazione
del 13.02.2004]).
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